Etica e sviluppo

Dio di mestiere faceva il carpentiere

I dati sulla disoccupazione sono in miglioramento, ma per i giovani la situazione resta critica. È utile comunque aiutarli a recuperare il senso del lavoro. GIORGIO VITTADINI

Mentre si guarda con speranza il pur leggero miglioramento del tasso di occupazione italiano comunicato nei giorni scorsi dall’Istituto di statistica europeo, la realtà con cui soprattutto i giovani devono confrontarsi quotidianamente continua a essere critica. Sfruttamento, scarsa possibilità di conciliare tempi lavorativi e familiari, formazione scolastica non sempre adeguata, e soprattutto una disoccupazione che, nella fascia 25-34 anni, è ancora attestata al 31,7%.

Se aggiungiamo l’incertezza sul futuro, data dai rapidi cambiamenti imposti dall’innovazione tecnologica (i robot ci costringeranno solo a lavorare in modo diverso, o ci porteranno via il lavoro?), il quadro si fa ancora più grigio. Ma non è tutto qui. Gli ostacoli infatti si stanno materializzando sempre più come difficoltà personali oltre che di contesto: insicurezza, mancanza di autostima e incapacità a instaurare relazioni in cui essere aiutati.

Non è il caso di addentrarsi qui in valutazioni di tipo psicologico o sociologico. Però qualche riflessione esistenziale è importante farla.

La prima è questa: limiti, errori, ostacoli, contraddizioni sono fatti essenziali della vita. È importante che i giovani se lo sentano dire. Soprattutto, bisogna che vengano aiutati a riconoscerli come tali nella loro esperienza. Ricordo la madre di un amico che, di fronte a ogni problema del figlio, commentava: “poverino, poverino, poverino!”. Questa donna non si rendeva conto che il messaggio subliminale che mandava al figlio è: sei incapace di affrontare le difficoltà, e comunque tali difficoltà sono un’ingiustizia che non dovrebbe esserci. La storia dell’umanità, del suo progresso, pur con i passi indietro che possono essere fatti, è una storia di superamento dei limiti. A qualunque livello, la difficoltà aiuta la forza dell’intelligenza e della creatività a esprimersi e a trovare soluzioni nuove ai problemi.

Il valore della sconfitta è essere spinti a riflettere, a capire di più, cosa che nel successo avviene meno, forse perché per natura il cervello tende a risparmiare energia e ha bisogno di una “spinta”. Di cui naturalmente, se fosse per noi, faremmo volentieri a meno. Perché si può soccombere ai problemi, cadere e farsi male, ma è diverso affrontare le sfide con questa consapevolezza. La nostra natura, o “cuore” se si preferisce, chiede una risposta sempre e non accetta di fermarsi, di soccombere alle difficoltà. C’è qualcosa al fondo della delusione e addirittura della disperazione che emerge sempre. Non a caso, si sente parlare spesso ultimamente di “resilienza”. Ed è impressionante vedere ad esempio come anche dopo le più grandi tragedie, l’uomo non si fermi.

La seconda considerazione riguarda l’idea di lavoro che abita più o meno consapevolmente nella testa dei giovani. Il lavoro non serve solo per portare a casa lo stipendio. A prescindere dal tipo di occupazione e dalla durezza delle condizioni in cui viene svolto, gli esseri umani sentono il bisogno di lavorare. Per esprimersi e per partecipare al cambiamento del mondo. Questo non significa che ad esempio lo sfruttamento non vada combattuto, ma che il senso che diamo a ciò che facciamo dipende da noi e non può levarcelo nessuno. Bisogna però avere una consapevolezza più grande delle circostanze che si vivono, occorre riconoscere che il nostro cuore può non essere ridotto. Il padre di un’amica, morto di silicosi dopo aver lavorato in miniera, alla moglie che gli chiedeva “chi te lo ha fatto fare?”, rispondeva: “Anche io ho dato il mio contributo al progresso”. Dimostrando così di avere una dignità e una percezione del suo valore più grande di chi gli aveva portato via anche la salute.

Il terzo punto, che emerge spesso nel dialogo con i giovani, è che si vive di legami. E il lavoro è una grande occasione per entrare in rapporto con persone, realtà, idee. Ma questo significa anche che il lavoro non è solo uno strumento per la propria espressività personale. O, meglio, questa espressività implica anche il bene che si prova per gli altri, per coloro che dobbiamo mantenere, per chi si ha intorno, per tutta la comunità.

Un quarto messaggio che, per la verità, i giovani hanno in mente molto più dei loro genitori, è che il lavoro è un percorso. Lavorare implica oggi un continuo cambiamento. Tale cambiamento non deve essere precarietà, ma apprendimento continuo. Non si può avere tutto e subito, ma è necessario costruirsi un iter. All’interno di questo bisogna sempre tenere insieme il realismo (fare quello che permette di vivere) e il sogno nel cassetto (quello che più piace e per cui ci si sente più portati).

In conclusione, c’è più che mai bisogno oltre che di abbattere la disoccupazione anche di recuperare il senso del lavoro umano. Questo è fondamentale per superare i limiti (perché il cuore è più grande di ogni disperazione), per esprimersi (il valore del lavoro è più grande del guadagno), per i legami che si vivono (per accettare il sacrificio di un percorso serve qualcuno di concreto per cui sacrificarsi). E, per chi è cristiano, per vivere un’unità più profonda con un Dio che di mestiere faceva il carpentiere.

Fonte: http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2018/5/4/Dio-di-mestiere-faceva-il-carpentiere/819283/

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